venerdì 12 settembre 2008

Era appena un anno fa. Stavamo in silenzio a raccogliere i ricordi della nonna che alcuni avevano solo come racconti, ed io sentivo una voce - non so se è possibile che me ne ricordi - una voce felice di vederci tutti lì per la prima volta, tre generazioni alla stessa tavola, con la tovaglia buona, quella del Natale che non abbiamo mai trascorso insieme. Figli dei figli dei figli, tuoi. Tutti con qualcosa da condividere con te, dalla forma delle mani al colore degli occhi fino al nome che anche io porto. Insieme a cancellare rancori vecchi di anni con ore di aereo e treno, che all'improvviso sembrano niente perchè è già trascorso un altro anno da allora.

3 commenti:

AB ha detto...

MI hai emozionato tanto

Anonimo ha detto...

Mi aggiungo alla tua sensazione di ricordo e sottile dolore e ti regalo, qui di seguito, quello che scrissi io, due anni fa, quando la mia nonna, la mia adorata nonna forte e anacrinisticamente donna, è andata via. Lasciandomi senza bussola in questo mondo carnivoro...


Si pensa sempre di avere tanto tempo per dire le cose importanti alle persone a cui si tiene.
Ma non è così.
Bisognerebbe ripeterglielo sempre quel “ti voglio bene”, per non avere mai il rimpianto di non averglielo detto a sufficienza.
Mia nonna era eccezionale. E io le volevo un bene immenso, viscerale, fortissimo.
Non era una di quelle nonne che ricamano sedute vicino al fuoco, non era una di quelle nonne che ti fanno la crostata di mele la domenica, non era una di quelle sempre vestite di nero con i capelli bianchi raccolti, no. Era una donna tenace e volitiva, una donna forte e coraggiosa.
Aveva sposato il rampollo, bellissimo ma un po’ rachitico, con velleità da scrittore, di una famiglia bene. Uno che si era trovato a gestire due immense fabbriche di pomodori pelati con almeno 80 operai, uno vestito sempre elegantemente, con la cravatta, l’orologio nel taschino e il bastone con il manico in avorio, che sognava di fare il poeta. Lei era solo la sua vicina di casa, un’operaia anche lei, ma aveva forme generose e la tempra che a mio nonno mancava. Aveva coraggio e faccia tosta da vendere. Sempre pronta a dare una mano a chiunque fosse in difficoltà, infaticabile e generosa, non si poteva non amarla, e mio nonno, a modo suo a volte, l’amò.
Alcuni suoi lontani parenti, in America, erano stati “il braccio destro” di Lucky Luciano. Mi raccontava, mia nonna, che mandavano regali costosi da lì. Arrivavano nelle cassapanche di legno, vestiti, gioielli e tanti cappelli. I cappelli, che a lei piacevano tanto. Ne aveva moltissimi, e noi nipoti, da bambine, li indossavamo fingendoci modelle su un’improbabile passerella allestita in corridoio. Ma lei ci lasciava fare, osservandoci con un sorriso. Mi affascinavano le sue storie. Soprattutto quelle dei suoi parenti, lì in America, che mi mostrava ritratti in vecchie foto, lise dal tempo, color nero di seppia. Erano mafiosi, forse… credo. E lei aveva la risolutezza di quelle donne. Di quelle donne poco donne e tanto simili a soldati.
Ma era anche di una dolcezza infinita. Ci metteva a letto, nel suo lettone, riempiendoci di baci e raccontandoci storie, e prima di andare a dormire, sul divano nel soggiorno, faceva un giro di ronda notturno nella fabbrica, con una carabina, una di quelle pistole simili a dei piccoli fucili, attaccata al fianco.
Mi diceva sempre di essere forte e di non piegarmi mai ai compromessi. Mi diceva che il mondo è fatto di individui, non da uomini e donne, e per questo io avevo diritto al rispetto non meno di un uomo.
Mio nonno se ne stava sognante alla finestra o al massimo andava al Bar Roma, in centro a Salerno, con l’autista, e lei mandava avanti due fabbriche stracolme di donne operaie e trattava coi fornitori, senza mai un cedimento, senza mai un tremore. E in tutto questo, trovando anche il tempo di organizzare pranzi dove invitare i più disagiati, regalandogli cibo, affetto, e vestiti, feste per i parenti e andare a teatro, ha cresciuto cinque figli.
Ecco, questa era mia nonna.
E non voleva morire così.
Non in un letto con l’alzheimer. Ma da lottatrice, da combattente. Così voleva morire.
Un giorno, qualche anno fa, guardando la sua immagine riflessa nello specchio di un grande magazzino, osservò quella signora con il cappello a cloche e la pelliccia e, sorridendole, educatamente la salutò. Quando capì di non essersi riconosciuta si incupì.
“Forse sto diventando come una di quelle vecchie che non capiscono nulla. Forse la mia testa è andata” , mi disse. E, avvicinandosi piano a me, mi mormorò all’orecchio: “Non permettete che io diventi così, come uno di quei vegetali che non riconoscono neppure se stessi. Uccidetemi prima. Non voglio morire così!”
Il destino è cattivo. A volte non ti fa scegliere come vivere e men che meno ti concede il lusso di decidere come morire. E lei è morta nell’unica maniera che odiava.
Tanti di noi hanno la sensazione di stare vivendo una vita che non hanno scelto. Indossano vestiti non a loro misura e vanno avanti, con l’assurda convinzione che forse un giorno le cose cambieranno. Tanti.
Ecco, io mi auguro solo questo. Non lo saprò mai con certezza, ma mi auguro che, lei, almeno abbia vissuto la vita che davvero voleva vivere.

eef

Unknown ha detto...

Me lo auguro anch'io leggendo questo racconto commosso e commovente. E credo che parte di chi ci ha preceduto e amato così tanto viva sempre in noi, nei nostri gesti, in come viviamo la nostra vita. Se tua nonna ha avuto una morte che potendo scegliere avrebbe escluso, adesso tu da combattente la stai riscattando.
La vita si avviluppa in migliaia di cerchi concentrici,
un abbraccio,

M.